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Public schools in Lombardy, Casa Vogue



Testo di Gianni Biondillo


Da giovani studenti del Politecnico, erano i primi anni Ottanta, si andava in giro per architetture. Non solo monumenti insigni del passato, molto più spesso si visitavano edifici contemporanei. Non era raro vederci davanti a palazzi, sedi comunali, collegi o scuole, intrufolarci dentro, fotografare di rapina. Prima a Milano, poi, allargando il raggio, nella prima cintura milanese, fino a puntate in macchina verso il Varesotto o nel Pavese. Cercavamo lavori di professori della nostra facoltà, volevamo capire come un progetto, quella cosa che imparavamo a fare sulla carta, diventasse materia, spazio, architettura.

Ricordo discussioni accese su chi preferiva l’intransigenza brutalista di Guido Canella, l’eleganza di Luigi Caccia Dominioni, il postmodernismo di Aldo Rossi. Chi puntava sulla tradizione modernista di Eugenio Gentili Tedeschi, chi sulla “misura lombarda” di Marco Zanuso. Probabilmente sembravamo curiosi come turisti, forse un po’ fanatici, come un qualunque appassionato è, in fondo. A ben vedere andavamo a studiare edifici che furono costruiti proprio per noi, per quella generazione di baby boomer nata con la crescita economica degli anni Sessanta. Tutto era possibile allora, il futuro, il progresso sembravano fuori discussione. I bambini di quel mondo, qualunque fosse l’estrazione sociale, avevano il diritto a strutture adeguate alla loro istruzione, alla loro crescita come cittadini. Quando divenni studente d’architettura quell’ideologia novecentesca stava già tramontando. Crisi petrolifere, economiche, demografiche. Ma in noi c’era ancora la voglia di imparare dalla buona architettura.

Mi chiedo se oggi i giovani studenti del mio Politecnico si organizzino ancora per queste curiose gite fuori porta. Quello che per me era sostanzialmente contemporaneo sarebbe, per loro, Storia. D’altronde è nella lunga durata che un’architettura dimostra la sua capacità di diventare significativa, necessaria. “Time Is on My Side” cantavano i Rolling Stones. I tempi dell’architettura scavalcano le generazioni. E chi la abita, chi la usa, se ne appropria facendone un po’ quello che vuole. Oggi che il culto di Aldo Rossi è un po’ appannato, rivedere la sua scuola a Broni, tra gli edifici allora più pubblicati al mondo, con gli intonaci sbollati, le pensiline arrugginite, dimostra quanto il fascino di Rossi stesse più negli splendidi disegni che nella capacità di costruttore.

Così come vedere oggi la simmetria monumentale dell’atrio con la fontana triangolare, smorzata da cose banali, della vita quotidiana, una bacheca, un paio di armadietti, alcune piante, la rende più umana. Sono bambini, sono insegnanti, bidelli, che vivono questi spazi, solo la capacità di essere flessibili, adattabili, li fa ancora vivi, emozionanti. Consiglierei davvero, all’ipotetico gruppo di giovani studenti, di andare a fare visita a queste architetture. Scoprirebbero l’esistenza di un progetto collettivo di architettura sociale che, coinvolgendo le migliori firme all’epoca in circolazione, ha saputo nobilitare i paesi e le periferie della più grande area produttiva del paese. Spesso sperimentando forme che forse sembravano astruse, azzardate ma che oggi riempiono di tenerezza chi le osserva. Ammirare l’opera del meno famoso Enrico Castiglioni, architetto bustocco capace di immaginare scuole sospese su ponti in cemento armato, con uno sguardo che alcuni teorici chiamano “retrofuturista”. Cioè l’idea di nostalgia per i futuri passati che non abbiamo vissuto. Quel periodo visionario che fa associare gli autogrill di quegli anni alle astronavi, le stazioni agli astroporti. Quando essere architetti non era una cosa che aveva a che fare semplicemente col gusto personale, l’effimero, il capriccio, ma significava sentirsi investiti da un ruolo, un dovere sociale irrinunciabile.